Personaggio
Roberto Longoni
Calisto Tanzi è morto. Era malato da tempo: una malattia diagnosticata dai giudici oltre che dai medici ne aveva fatto l'ombra di colui che era stato. Impossibile rialzarsi in piedi, dopo essere precipitato in una voragine profonda 14 miliardi di euro. Era facile prevedere che quei 17 anni a lui inflitti per bancarotta fraudolenta e aggiotaggio Calisto Tanzi non li avrebbe scontati fino all'ultimo giorno. Nemmeno ai domiciliari. Oltre che del condannato, la morte che lo ha preso 83enne in un letto del Maggiore ha abbreviato la pena dell'essere umano. Si è conclusa così la vita di chi fu fatto cavaliere del Lavoro da Pertini (1984) e di Gran Croce da Ciampi (2000), per poi essere disarcionato nei titoli da Napolitano nel 2010. Il Re Mida che, partito dall'aziendina di famiglia, aveva trasformato il latte in oro bianco, creando una multinazionale con 130 stabilimenti in 31 paesi. Non tramontava mai il sole, sul suo impero: ci calarono le tenebre per una tempesta giudiziaria e finanziaria. Diciotto anni sono trascorsi dalla bufera che travolse Tanzi, la sua azienda, i suoi collaboratori e, a ruota, il cosiddetto parco buoi dei risparmiatori convinto (anche da interessati suggeritori bancari) di trovare pepite in un fiume di latte di ottima qualità, ma avvelenato dagli scarti della finanza.
Tante furono le sue vittorie, una sola ma gigantesca la sconfitta. A mettere tutto insieme, si ottiene un quadro sconcertante, più difficile da interpretare di alcuni dei capolavori di arte contemporanea sequestrati a lui e ai suoi familiari dopo il grande crac. Colpevole in terzo grado per la legge dei tribunali e per il sentire dei più. Ma al tempo stesso generoso finanziatore di progetti solidali e di restauri artistici per la città e il territorio. Benefattore agli occhi di chi, disoccupato, da lui veniva assunto su due piedi. Premuroso padrone di casa che, nella villa di Fontanini in occasione di cene con ospiti del gotha della politica e dell'economia, mai dimenticava di preparare una sala da pranzo per autisti e guardie del corpo. Dettagli? Può darsi, ma a loro volta in grado di rivelare uno scorcio umano in un complesso mosaico a più strati.
Dettagli preziosi proprio perché gratuiti, non imposti da niente, a chi a lungo dev'essere stato impegnato in ben altri pensieri. Un uomo la cui scrivania a un certo punto deve aver cominciato ad assomigliare a un tavolo verde al quale rilanciare di bluff in bluff. Acrobazie richieste dal meccanismo da lui stesso messo in moto o nel quale lui aveva trovato posto - grazie ad amicizie influenti e non sempre davvero «amiche» - allargandosi sempre più. Fervente cattolico e al tempo stesso colpevole di «hubrys», l'eccesso che rappresenta un peccato imperdonabile agli occhi degli dei. Regista del sogno di una città che arrivò a conquistare la grande ribalta calcistica, sfidando (e spesso battendo) big d'Italia e d'Europa. Calisto. Difficile la via di mezzo, quando per nome hai un superlativo assoluto greco.
Più che capitano d'industria, fu visionario generale: nel 2003, al momento del crac, il fatturato della sua azienda superava i 6 miliardi di euro. Niente male per il «figlio del droghiere». Ragioniere, aveva abbandonato l'università per aiutare il padre Melchiorre malato. Di lì a poco, nel 1960, s'era ritrovato tra le mani le redini dell'azienda di salumi e conserve a Collecchio. A fondarla era stato il nonno, Calisto senior. Ventiduenne, lui decise di voltare le spalle alla filiera del maiale, per dedicarsi a quella delle mucche. Un pioniere solitario in un mondo frammentato, allora dominato dalle pubbliche centrali del latte. La sua piccola fabbrica di pastorizzazione, la fondò nel 1961. Si chiamava Dietalat, diventò Parmalat nel 1963. Nome per 40 anni sinonimo di un successo planetario. L'ascesa fu impetuosa. Dapprima grazie alla vendita porta a porta, che già nel 1962 portò il fatturato a 200 milioni di lire. E poi grazie al tetrapak, il cartone usa e getta scoperto dallo stesso Tanzi durante un viaggio in Svezia. Una folgorazione. Economica e facile da stoccare, era la confezione ideale per il latte a lunga conservazione sul quale Calisto aveva deciso di puntare. Applicato a conserve e succhi di frutta, il procedimento Uht permise di allargare la lista dei prodotti commercializzati dal '66 nel segno del fiore stilizzato sbocciato dal genio di Silvio Coppola. Un marchio esposto in vetrina non solo nei negozi di mezzo mondo, ma anche al Moma di New York.
A tutto mise il turbo il marketing, affidato alla sponsorizzazione sportiva. Attraverso giornali e televisioni, la Parmalat conquistò un mercato planetario. Era il «latte da campioni»: quello che alimentava le imprese di Gustav Thoeni e del rivale Ingmar Stenmark. Nel 1975, all'epoca del loro epico slalom parallelo in Val Gardena, l'azienda fatturava già 100 miliardi di lire (nel 1983 sarebbero stati 550). Poi, il latte marchiato Collecchio divenne carburante naturale di Niki Lauda e della Brabham-Alfa Romeo vincitrice di due titoli mondiali con Nelson Piquet. Altri sport seguirono, dal volley al baseball, con la conquista di coppe e campionati italiani ed europei. Una storia analoga per il marchio Santàl creato da Tanzi nel 1981 e impresso sulle casacche dei pallavolisti parmigiani dall'82 all'87 (tra i loro trofei un Campionato italiano, una Coppa Italia e due Coppe dei campioni d'Europa). Non solo sport, tuttavia. Basti pensare alla sponsorizzazione dell'esibizione di Luciano Pavarotti al Central park di New York nel 1994 o al grande concerto romano per il Giubileo. Si scoprirà in seguito che già allora, a fine degli anni '80, i debiti della Parmalat ammontavano a un centinaio di miliardi di lire. Per evitare il crollo, l'azienda si quotò in Borsa a Milano. Era il 1990: i dipendenti erano 36mila e il giro d'affari superava i 1.300 miliardi di lire.
Nel 1987, l'ingresso nel mondo del calcio, con la sponsorizzazione del Parma. Qui Calisto divenne il patron, dopo la morte di Ceresini. Più del presidente, più dello sponsor. Quello che ci mette i soldi e la visione, quello che fa al tempo stesso da bandiera e da vento. E quando capitan Minotti sollevò la Coppa delle coppe, il 12 maggio 1993, a salire più in alto di tutti nel cielo di Wembley quella sera fu proprio il «figlio del droghiere». Altre notti magiche come quella sarebbero seguite, con la bacheca arricchita anche da due Coppe Uefa, una Supercoppa europea, tre Coppe Italia. Successi condivisi con Stefano (nominato presidente), il terzogenito avuto con Francesca e Laura dalla moglie Anita. Successi impensabili per una provinciale che fino al 1990 non era nemmeno stata di lusso, costretta a galleggiare tra B e C, con qualche caduta in quarta serie. Per anni il gialloblù parve destinato ad accompagnarsi al tricolore dello scudetto. E a ripensarci, con campioni come Veron, Zola, Cannavaro, Thuram, Crespo, Buffon, Melli, Benarrivo e Asprilla, viene da chiedersi come mai non sia accaduto. Forse perché alla base di tutto c'era un grande bluff? Il sogno fu interrotto dalla segnalazione di un fuorigioco da parte della Consob, dopo tanti, troppi dribbling tra banche, politica e finanza acrobatica. A finirci era stato lui, il patron decollato da Collecchio. L'Icaro volato troppo in alto, forse per scelta o forse perché portato dal vento.
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