Processo
Il viso scavato da un'insonnia forse nata ben prima di quel terribile 15 maggio 2024, il passo incerto, la voce sommessa, Giorgio Miodini chiede permesso prima di sedere tra i propri difensori Mario e Filippo L'Insalata: mai avrebbe immaginato di trovarsi a un banco degli imputati, per di più per l'omicidio della moglie alla quale aveva dedicato l'esistenza, fino a cancellare la sua e la propria. Mai lo avrebbero immaginato i vicini venuti a testimoniare per lui, uomo generoso e sempre disponibile con tutti. E invece ora è proprio ad ascoltare la lettura del verdetto da parte del giudice Maurizio Boselli che lo condanna a 14 anni per l'uccisione di Silvana Bagatti e a 10 mesi e al pagamento di una multa di 2200 euro per la detenzione del fucile e delle cartucce non denunciati rinvenuti nel suo appartamento. È con quel calibro 12 da caccia che ha sparato alla consorte stesa a letto, ancora addormentata: la donna che mai usciva, che da anni aveva chiuso con il mondo, intrappolata in un abisso di depressione. Lui l'aveva accudita fino ad andare oltre le proprie forze, la ragione e la legge.
Ai piedi un paio di Clarks da deserto grigie, indosso una tuta invernale nera, fin troppo pesante per questo caldo inizio d'autunno; tuta senza tasche: non ce n'è bisogno. Con sé Miodini non ha portafogli né cellulare (gli è stato sequestrato il giorno del delitto) né chiavi. Il suo domicilio (coatto) è la clinica psichiatrica di Monticelli, da dove è uscito di buon mattino e dove tornerà ai domiciliari dopo la sentenza. Altri gli apriranno. Sembra che nulla possa cambiargli l'espressione sul volto. Espressione tutt'altro che impassibile, ma da uomo sconfitto.
Eppure, Miodini è teso davanti alla giuria presieduta da Boselli (a latere Francesco Magnelli): come se avesse ancora qualcosa da perdere. Sa benissimo che non potrà essere assolto. «Venite, ho ammazzato mia moglie» aveva telefonato da via Marx al 113, poco dopo le 8 di quel mattino, reo confesso fin da subito. Oltre che sul Codice penale, il processo (che è stato anche alla solitudine e alla fragilità della nostra condizione) è stato sul sentire umano, sulla possibile condivisione nei confronti di chi, in un caso particolare come questo, è imputato ma anche vittima di una situazione. E forse proprio da questa aspettativa nasceva la tensione di Miodini prima della sentenza. Se è così, non è stato deluso.
Quattordici anni gli sono stati inflitti, anziché il quarto di secolo chiesto dal pm Ignazio Vallario, che aveva sostenuto l'aggravante della premeditazione. Il minimo della pena, con le attenuanti prevalenti sull'aggravante del rapporto coniugale (indiscutibile, anche se qui siamo in un campo ben diverso da quello previsto dai codici rossi). «Una sentenza onesta, che ha riconosciuto in toto la situazione molto particolare - commenta Mario L'Insalata -. Sono state accolte tutte le nostre richieste. La corte ha dato prova di grande buon senso». Ora, ai difensori non resta che attendere il deposito delle motivazioni, per valutare il da farsi. Il loro assistito torna a Monticelli. Nel suo futuro, ci saranno anni di domiciliari (difficile che a 78 anni e più torni in carcere) nell'appartamento di via Marx o in una casa di riposo. Ma dovunque andrà la sua pena personale, Miodini continuerà a scontarla. Un ergastolo di sensi di colpa. «Non c'è giorno che non pensi a quel mattino» mormora, uscendo dall'aula Mossini.
Roberto Longoni
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