Intervista ad Alessandro Chiesi
Presidente Alessandro Chiesi, congratulazioni: novant’anni di storia sono un bel traguardo.
«Sì, ne siamo orgogliosi. Abbiamo festeggiato con 2.200 dipendenti qui a Parma, oltre a vari eventi nelle nostre filiali sparse per il mondo. Un bel momento: è stata soprattutto la festa di chi lavora nella Chiesi, l’obiettivo era proprio festeggiare le persone».
L’idea originaria fu di Giacomo Chiesi, suo nonno.
«Sì, era un farmacista di Brescello. Lui avrebbe voluto fare l’architetto, ma in casa gli avevano fatto capire che, per portare a casa i soldi per il lesso, sarebbe stato meglio iscriversi a Farmacia. Nei paesi, allora, il farmacista era una figura fondamentale: c’erano il sindaco, il prete, il comandante della stazione dei carabinieri, il medico e, appunto, il farmacista. La svolta è stata quando ha rilevato un piccolo laboratorio chimico farmaceutico a Parma, si è trasferito, ha conosciuto Carla Greci, che poi ha sposato: persona importantissima per la sua vita e per l’attività. E ha cominciato l’avventura: era il 6 luglio 1935».
Poco dopo è arrivata la guerra.
«La famiglia è sfollata in campagna. E lì i figli Alberto e Paolo, giovanissimi, hanno cominciato a “lavorare”: il padre li aveva incaricati di cercare le piante di edera, dalle cui foglie si estraeva il principio attivo di uno dei primi prodotti realizzati, uno sciroppo antitosse. Da lì è partito tutto. Poi il boom economico, la prima espansione. E anche l’ingresso di una donna laureata in Chimica, Neive Terzi: una rarità, per l’epoca».
Quali sono state le prime tappe dell’espansione dell’azienda?
«Un passo alla volta, ma sempre guardando lontano. Una buona “squadra” di rappresentanti, che giravano in bicicletta e che si sono rivelati figure chiave per l’azienda, per fare conoscere ai medici i prodotti che venivano sviluppati. Si è cominciato a uscire dai confini della provincia, poi della Regione, poi ad andare all’estero».
E nel ’55 l’apertura della fabbrica in via Palermo.
«Un’altra scelta lungimirante, una fabbrica molto moderna per quei tempi. È stato giusto settant’anni fa, ed è rimasta la sede principale del Gruppo fino agli anni Ottanta. Lì sorgeranno i “Chiesi Gardens”, un luogo rinnovato dove scienza, comunità, formazione si mischieranno in un ambito aperto, con l’obiettivo di integrarsi con il quartiere, dando un contributo a una zona che ha bisogno di crescere e alla gente che la abita».
Verso la fine degli anni Sessanta, il primo passaggio generazionale.
«”Adesso la palla è nel vostro campo”, ha detto mio nonno ai due figli. Alberto e Paolo sono stati capaci di costruire sulle radici, dando quindi coerenza a quanto era stato fatto fino ad allora, ma anche di dare visione e coraggio per costruire il futuro. Puntando tutto su due aspetti che, ancora oggi, sono fondamentali per il Gruppo».
Quali?
«Il primo è l’innovazione come motore della crescita, come fulcro di tutto ciò che facciamo. Hanno cominciato a investire risorse e tempo, guardando lontano ma anche cercando di essere impattanti nel breve termine. Al centro, ieri oggi come, c’è una persona fragile, che è il paziente: noi possiamo cercare di fare la differenza per aiutarlo, in modo efficace e sostenibile, grazie all’innovazione biofarmaceutica. Mio padre e mio zio sono stati bravi a trovare i prodotti giusti: la scienza viene prima di tutto, ma anche l’intuito e la capacità di capire su cosa puntare è fondamentale, in un settore dove i costi degli investimenti e i rischi sono altissimi».
Il secondo aspetto?
«L’internazionalizzazione. Nella farmaceutica la massa critica è importantissima, se si pensa al costo degli investimenti, in termini di risorse finanziarie e di tempi di sviluppo. Dall’idea di un nuovo prodotto all’uscita sul mercato passano dai dieci ai dodici anni e si spendono in media – comprendendo tutto, anche gli insuccessi – due miliardi di euro. Ecco perché serve la massa critica, avere la possibilità di offrire il farmaco al maggior numero possibile di pazienti. E quindi è stato molto lungimirante pensare da subito a fare crescere l’azienda anche fuori dai confini nazionali».
Oggi il Gruppo Chiesi è presente in più di trenta Paesi.
«Sì, è il frutto di anni di investimenti e di visione lunga, di piccole acquisizioni e di apertura di filiali in giro per il mondo. Un passaggio fondamentale è stato nel 2011, quando abbiamo aperto un importante centro di ricerca a sviluppo a Parma, che è tutt’ora il più importante del Gruppo».
Com’è ripartito il fatturato nel mondo?
«L’Europa rappresenta ancora la quota più significativa, circa il 60%, ma stiamo crescendo significativamente negli Stati Uniti e nel Far East, a cominciare dalla Cina».
Oggi l’azienda è guidata dalla terza generazione.
«A metà anni Novanta siamo entrati io, mio fratello Andrea e nostra cugina Maria Paola; qualche anno dopo Giacomo, che è più giovane. È stata una transizione diversa dalla precedente, senza un passaggio di consegne, perché abbiamo cominciato a lavorare al fianco di mio padre e mio zio. Abbiamo portato idee nuove e anche una visione diversa, insieme al coraggio di fare investimenti molto importanti».
Lo dimostra il fatto che siete la prima azienda farmaceutica italiana per investimenti in ricerca e sviluppo.
«Proprio così: da anni investiamo in ricerca e sviluppo più del 20% del fatturato: 829 milioni di euro nel 2024 e oltre 400 nel primo semestre del 2025. Se consideriamo gli ultimi cinque anni, 3,06 miliardi».
È necessario per continuare a crescere?
«Sì, per crescere e per poter aiutare con sempre maggiore efficacia i pazienti. Ci siamo focalizzati sulle patologie respiratorie croniche, sulla neonatologia e su alcune aree specialistiche. Negli anni più recenti, anche sulle malattie ultra rare, che sono tantissime: c’è un grande bisogno di investimenti per aiutare i pazienti che ne sono affetti».
Di che numeri si parla?
«Esistono nel mondo 10.000 malattie rare: i pazienti sono 2 milioni in Italia, 30 in Europa, 350 nel mondo. Servono enormi investimenti per trovare prodotti efficaci, anche se il fatturato di questi farmaci è molto, molto inferiore rispetto a quello degli altri settori: per le patologie respiratorie, nel 2024 sono stati trattati con nostri prodotti circa 9 milioni e mezzo di persone, per le malattie rare qualche decina di migliaia».
Siete convinti sostenitori della sostenibilità.
«Sì, intesa a 360 gradi all’interno della vita, del funzionamento e della mission dell’azienda. È una cosa naturale, avendo noi sempre messo le persone al centro, a cominciare da pazienti. Nostro nonno Giacomo è sempre stato molto attento alle persone, per sua natura: e questo è diventato un carattere distintivo dell’azienda. Fare qualcosa per fare stare meglio le persone, o addirittura contribuire a salvare loro la vita, è qualcosa che ti dà una spinta incredibile».
Negli anni, il concetto di sostenibilità si è evoluto.
«Sì, dall’impegno sociale a quello per la comunità, fino a quello per l’ambiente, che è la casa di tutti. Il passaggio fondamentale è stato fare diventare la sostenibilità il modello aziendale, mettere insieme le sfide del business con quelle sociali e ambientali: il profitto diventa così lo strumento per continuare a inseguire la sostenibilità in tutti gli aspetti. Non è un caso che siamo stati tra i primi a diventare una Società Benefit, in Italia e in tutti gli altri Paesi del mondo dove la legislazione prevede questo “status”: Francia, Stati Uniti e Colombia. Un’altra sfida per cui ci stiamo impegnando molto è la riduzione dell’impronta carbonica, almeno del 90%, entro il 2035».
Cosa può fare un’azienda come la vostra per la comunità?
«Tanto. Teniamo molto al radicamento sul territorio: è grazie alle persone di Parma che l’azienda, dai primi passi a oggi, è cresciuta. In qualche modo, l’azienda stessa è un cittadino di Parma, non fosse altro perché circa 1.700 persone lavorano nei centri della Chiesi in città, 1.700 famiglie che gravitano intorno a noi a Parma. C’è sempre più bisogno di comunità, in un periodo in cui assistiamo a una disgregazione. È una società sempre più variegata, che si sta polarizzando: ricchi e poveri, persone che hanno accesso alla formazione e altri che non l’hanno, idem per la sanità. Tutti temi a fortissimo impatto sociale, che rappresentano una sfida anche per un’azienda che ha qui le proprie radici».
Lei è presidente di “Parma, io ci sto!”: quanto è importante questa esperienza?
«Tanto, soprattutto per fare sistema nella comunità. L’abbiamo fondata dieci anni fa, insieme alla Barilla, alla Dallara, con Andrea Pontremoli, alla Fondazione Cariparma e all’Unione industriali. Oggi sono iscritti più di 150 tra aziende, associazioni, professionisti, cittadini. Abbiamo fatto e stiamo facendo tante cose, c’è tanta energia. E stiamo procedendo con un ricambio generazionale: sono saliti a bordo tanti giovani, imprenditori con meno di trent’anni: portano nuove competenze, nuove prospettive, vanno a una velocità doppia».
Su quali progetti state lavorando?
«Tanti, orientati soprattutto alla rigenerazione urbana. Il progetto ParCO all’ospedale vecchio è molto promettente, un altro riguarderà piazza Ghiaia. Stiamo pensando anche a una sorta di fondo di investimento per la rigenerazione del territorio. A me sta molto a cuore anche il tema della formazione: per mettere le nuove generazioni nelle condizioni di essere pronti a entrare nel mondo del lavoro e, al tempo stesso, dare alle aziende l’opportunità di trovare e competenze di cui hanno bisogno».
La Chiesi investe molto sui giovani.
«Sì, nel 2024 gli under 30 hanno rappresentato il 27% dei nuovi assunti. E abbiamo varato il progetto Joy, “Join the future of Strategy”, un format innovativo che mette insieme i giovani più talentuosi, interessati a contribuire all’evoluzione dell’azienda, e il top management del Gruppo: dal confronto si esce tutti arricchiti. Vogliamo proporre di portare questa bellissima esperienza all’interno di Parma capitale europea dei giovani 2027».
Qual è la sua opinione su Parma?
«Mi affido a quello che dicono i colleghi, giovani e meno giovani, che vengono a lavorare a Parma. La loro valutazione della nostra città è molto positiva: una bellissima città, dove si sta molto bene. Questo non significa che non ci siano problemi, alcuni dei quali vengono toccati da tutti i noi ogni giorno. La percezione di poca sicurezza, per esempio: a volte è collegata al fatto che ci sia poca gente in giro. E quindi torniamo al tema della comunità: ci sono luoghi che si sono svuotati e non sono più luoghi. Abbiamo il dovere di provare a fare qualcosa per farli rivivere, di ricreare luoghi di aggregazione».
A chi spetta il compito, in prima battuta?
«A tutti noi. Il lavoro dell’Amministrazione, oggi, è molto complicato, dobbiamo impegnarci tutti. John Fitzgerald Kennedy diceva “non chiedere allo Stato che cosa lo Stato può fare per te, ma cosa puoi fare tu”: Ecco, bisognerebbe partire da qui. Ovviamente è importante anche il ruolo dell’Amministrazione».
Che cosa si sente di chiedere alla politica?
«Un amministratore deve dotarsi delle migliori risorse possibili, proprio come un’azienda. E deve fare delle scelte. Questo vale in generale, non solo a Parma. Fare delle scelte è fondamentale: un conto è dire che non vogliamo lasciare indietro nessuno – ed è sacrosanto –, un altro è fare interventi a pioggia, che non servono a nessuno, se non, forse, per mettersi l’anima in pace e magari portare a casa qualche voto. Fare delle scelte è difficile, ma necessario».
Quali sono le prime che si augura, per la città?
«Non faccio classifiche. Penso alla formazione, all’innovazione, alla nuova imprenditorialità. Penso anche all’Università: è indispensabile dare a tutti le stesse opportunità per crescere e per avere successo, ma al tempo stesso servono scelte: il modello universalistico di offerta formativa non funziona più: si finisce per cercare di fare tutto, e si fa tutto male. Un tema importante da affrontare urgentemente è quello della casa. Abbiamo diecimila studenti che non sanno dove stare, e anche tante altre categorie in difficoltà, e migliaia di alloggi sfitti. Non si può andare avanti così. E occorre, ripeto, fare vivere tanti luoghi “spenti” della città. Tutto questo facendo un gioco di squadra: credo che si potrebbe fare molto di più, investendo relativamente poco, se lavorassimo facendo sistema. A cominciare, per esempio, dal tema infrastrutture».
Qual è la sua opinione?
«Aeroporto, bretella autostradale, fermata dell’Alta velocità. Discutiamo da troppi anni, senza che accada nulla. Penso occorra fermarsi un attimo e capire quale scelta fare, in modo chiaro e coraggioso: altrimenti non otterremo nulla. A me sembra importante soprattutto non perdere l’occasione di collegare Parma all’Italia e all’Europa con la rete ferroviaria».
La Chiesi ha dei progetti in corso pensati per rivitalizzare la città?
«Sì, due progetti pensati per il San Leonardo nei quali crediamo molto: i “Chiesi Gardens”, un progetto di rigenerazione urbana che trasformerà lo storico sito industriale di via Palermo in un hub culturale aperto alla città e alle comunità internazionali, e il parco di via Verona, che sistemeremo, d’intesa con il Comune, perché diventi un parco fruibile da tutte le persone del quartiere. Coinvolgeremo le associazioni anche per organizzare un programma di animazioni che contribuisca a farlo diventare il parco di tutti».
In centro lei ha il progetto dell’albergo di lusso nel Palazzo dell’Agricoltore.
«È un progetto ambizioso che avrà successo solo se funzionerà non solo come hotel, ma anche come luogo di ritrovo per i parmigiani e se crescerà insieme alle attività esistenti e a quelle che potranno tornare in quel quadrante del centro storico tra la Ghiaia, il Regio e via Garibaldi. Il progetto ha senso se tutta l’area diventa più bella e più viva, creando un circolo virtuoso. Stiamo anche facendo una sorta di laboratorio in borgo del Gallo, attraverso l’apertura di attività con affitti calmierati, organizzazione di iniziative, attività in comune. Anche il commercio deve cambiare: il modello “tradizionale” oggi non funziona più, oggi è difficilmente sostenibile».
Claudio Rinaldi
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