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Anselmina äd Panòcia, la sùcca, l'a fäva bòjor insìmma ala stùa in-t-un bronzén ch’al baläva cme la sò dintéra». Stessa cosa o poco dissimile anche per altri anziani «pajzàn» del nostro contado che la zucca non la scoprivano certo la notte di Halloween, che non sapevano nemmeno cosa fosse, ma la utilizzavano, specie in questa stagione, con le «rezdóre» che si inventavano minestre, zuppe, tortelli, sughi e dolci, oppure mangiandola «sorda», ossia senza alcun condimento con solo un pizzico di sale.
Un cibo gustoso ma, soprattutto, morbido per quelle vetuste dentature non certo da squali. È già da oltre un mese che, in tv, scorrono immagini pubblicitarie di dolci, dolcetti, torte, merendine e ammennicoli vari con motivi piuttosto macabri proprio per ricordare l’assurda notte degli orrori. Notte, quella del 31 ottobre, trasformata degli orrori all’estero, specie negli Usa, ma non certo da noi in quanto, le notti dei Santi e quella successiva dei Morti, erano solennizzate in modo diverso con l’effettuazione delle padanissime «lumerade» descritte mirabilmente da Gilberto Oneto nei suoi «Quaderni Padani».
Notti magiche nel corso delle quali abili intagliatori ricavavano dalle zucche dei faccioni che, illuminati all’interno con una candela, venivano issati sopra le fontane, nei crocicchi delle vie, negli angoli più bui dei borghi, nei pressi dei cimiteri più per divertire che per spaventare. Anche perché, per spaventare i nostri nonni, ci voleva ben altro con la vita dura che erano abituati a condurre. Quindi, una ricorrenza antica, più precisamente celtica, quella delle notti dei Santi e dei Morti.
Infatti l’anno celtico era suddiviso e cadenzato da quattro ricorrenze importanti dette «feste del fuoco»: Samain (notte del 31 ottobre festa di Ognissanti e dei Morti), Imbolc (1° febbraio), Beltane (1° maggio) e Lugnasad (1° agosto) in seguito cristianizzate dalla Chiesa nella «Candelora», «Calendimaggio» (dedicato alla Madonna), e «Lugnasad» (San Lorenzo). «Samain» era, comunque, la festa più importante per il mondo celtico. Essa cadeva nel mese lunare segnato sul calendario di Coligny col nome di Samonios (il tempo della fine dell’estate) e sostituiva anche il Capodanno, con il quale finiva la metà chiara dell’anno e cominciava quella scura ed era perciò simbolo di morte e rinascita. Il «capodanno celtico» era un giorno al di fuori del tempo e dello spazio tanto da consentire ai defunti, ai viventi, ai discendenti che dovevano ancora nascere e alle creature del mondo di mezzo (fate, gnomi ed elfi) di mostrarsi nel mondo ed incontrarsi. E allora, la tradizione di andare in giro mascherati da mostri, streghe e folletti, in questa notte, riprende l’antica pratica del travestimento rituale utilizzato dagli sciamani e non da discutibili trovate pubblicitarie di dubbio gusto.
Ma ritorniamo alla cara vecchia zucca che, nei campi, rappresentava sicuramente l’ultima fatica del contadino prima dell’inverno. Nell’orto, invece, precedeva di poco la verza, quella verdura che ama freddo, neve e «galabrùzza» e che sancisce definitivamente la fine dell’anno agricolo.
Già, la cara vecchia zucca, la verdura autunnale per eccellenza, l’ingrediente essenziale per i prelibati tortelli, sconosciuti per lo più in montagna ove prediligono il ripieno con patata e porro, ma diffusissimi nella nostra Bassa sino al Mantovano dove raggiungono il loro apogeo.
Con la castagna, i porri, le fave, i «pér nóbil», la verza e la patata, la zucca rappresentava il leit motiv gastronomico delle cene dei Santi e dei Morti durante le quali, non dimentichiamolo, si ultimavano i lavori per fare la mostarda con i «pér nigrén» e per confezionare la prelibata spongata da tagliare la notte della vigilia di Natale. Le zucche, una volta raccolte, dopo essere state in balìa dei temporali estivi, dopo essere state accarezzate dalla rugiada e flagellate dal sole agostano, venivano raccolte, tra ottobre e novembre, e quindi messe a «sugär» per tre settimane sotto il «pòrtogh» della casa colonica.
Dopo di che venivano riposte nel sottoscala, oppure nel «granär» e lì sostavano tutto l’inverno consentendo alla gente dei campi di cibarsi della loro gialla polpa. I «nòstor véc'» asserivano fosse, oltre che salutare, anche un amuleto. La metafora di avere «poco sale in zucca», riferito ad una persona screanzata, forse, derivava proprio da questo particolare in quanto la zucca vuota si riempiva di sale e si posizionava sul camino.
Sotto il profilo esoterico, sempre secondo antiche usanze, la zucca era considerata simbolo della vita, della fecondità e della vittoria sulla morte in quanto i suoi numerosissimi semi (le famose «brostolén’ni», che un tempo venivano abbrustolite e salate per la gioia dei ragazzi), una volta utilizzati, potevano dare origine a numerose piante. Anticamente era credenza diffusa che la zucca fosse un regolatore dell’intestino e, allora, veniva consigliata a chi soffriva di colite oppure a chi era afflitto da stitichezza. Ai pazienti veniva somministrata sia cruda (grattugiata come una carota) che cotta, al forno o nella minestra.
Le «medgón’ni» (guaritrici) la prescrivevano ai «nevrasténich», ai collerici, a quanti erano facilmente preda di accessi di ira. Infatti, assumendo continuativamente porzioni di zucca, si placavano i bollenti spiriti ed inoltre, se mangiata prima di coricarsi, poteva favorire il sonno. Sempre secondo un’antica ricetta delle «medicone», con i semi di zucca, si potevano combattere i vermi dei bambini. La miracolosa mistura aveva effetti straordinari e i piccoli ammalati, come per magia, si rimettevano rapidamente riprendendo peso e colorito roseo.
Narra la leggenda che con le prime «zucche violine» (pregiatissime per i sughi per condire gli gnocchi di patata) in certe località padane, di cui San Genesio è patrono, nel pranzo della sagra del 25 agosto, non potevano mancare gli gnocchi conditi con sugo di zucca che si offrivano ai poveri e ai giramondo presenti alla sagra.
Ma perché proprio per san Genesio si ricorreva alla «zucca violina»? Il dialetto parmigiano ci svela l’arcano. Infatti, il modo di dire «ésor povrètt cme San Vjolén» voleva significare essere slirato proprio come «San Violino». Nella nomenclatura dei santi, «San Violino», non esiste. Si alludeva, invece, a San Genesio in vita mimo, attore, comico e suonatore girovago che, convertitosi al Cristianesimo, fu decapitato sotto Diocleziano. Ed allora non poteva non abbinarsi a «San Vjolèn» la «zucca violina» con il cui sugo si condivano gli «zgranfgnón pr’i povrètt». Per i parmigiani la zucca dei campi e degli orti era la «sùcca» mentre quella selvatica era la «sùcca da pescadór» o «sùcca dal pelegrén». Invece, quella a forma di fiasco, era la «sùcca da vén», infine l’uomo calvo era «na sùcca pläda». Anticamente, volta Antini, era «bórgh ädla Sùcca» per la presenza dell’omonima osteria dove, secondo i ricordi tramandati dagli anziani, si mangiava, si beveva e si gustavano tortelli fatti con il ripieno ricavato dall’antico «oro dell’inverno».
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