Piane di Carniglia
Tutto è rimasto come allora: uno squarcio nel parapetto e monconi di ferro che feriscono aria e sguardi. Sembrano meccanismi di un orologio rotto, un calendario inceppato sulla stessa data: il 4 dicembre 2019. Quel mercoledì costò la vita a Simone Filiberti, appena partito dalla sua casa di Foppiano per seguire le lezioni di Economia e commercio a Parma. La sua Punto sbandò a inizio del ponte di Carniglia sul Taro, finì con la fiancata destra contro il parapetto a valle e, continuando a sbandare, oltre metà ponte finì di muso (ai 25 all'ora al massimo, secondo la Procura) contro la ringhiera. Che cedette: Simone precipitò per dieci metri, intrappolato nell'auto che si capottava nella gelida corrente del Taro. Appena al di là del ponte, un testimone assistette impotente alla scena. Simone morì sotto i suoi occhi. A 20 anni.
Quasi sei ne sono trascorsi, e ieri si è concluso il processo di primo grado per questa tragedia. Due gli imputati, entrambi 65enni da poco in pensione, l'allora responsabile dell'Unità operativa manutenzione strade della Provincia di Parma e un capo cantoniere responsabile di quel tratto di fondovalle. Erano chiamati a rispondere di omicidio stradale: per il pm Laila Papotti, che ha chiesto due anni di reclusione per ciascuno, il primo «ometteva di vigilare sull'operato degli assistenti e degli operatori stradali e di fare eseguire le opere necessarie a garantire la sicurezza della circolazione», il secondo «ometteva di vigilare sull'operato dell'addetto a quel tratto di strada, attivarsi per il ripristino della cunetta (dalla quale sarebbe uscita l'acqua poi ghiacciata sulla strada, ndr), di attivarsi per segnalare il pericolo agli automobilisti, di far spargere sale sulla carreggiata e di segnalare all'amministrazione provinciale la pericolosità e l'inadeguatezza delle ringhiere presenti sul ponte».
Il funzionario è stato assolto dal giudice Alessandro Conti per non aver commesso il fatto, mentre l'altro, al quale sono state riconosciute le attenuanti, è stato condannato a un anno e due mesi, con pena sospesa e non menzione. Entro trenta giorni le motivazioni, e allora l'ex capo cantoniere valuterà se procedere con un appello che appare scontato.
C'era ghiaccio o c'era (solo) brina alle 7 di quel 4 dicembre, in corrispondenza della cunetta dalla quale fuorusciva acqua a lato della curva d'ingresso al ponte, dove Simone avrebbe cominciato a sbandare? Questo uno dei cardini del processo: l'asfalto ghiacciato dato per certo da alcune testimonianze è stato negato dall'avvocato Carmelo Panìco, che ha parlato di brina. Il difensore dei due imputati ha riportato i dati del meteo: «Mai si era scesi sotto zero prima. A mezzanotte la temperatura in quel punto era di 4,8 gradi; solo alle 7 sarebbe stata di -0,3 gradi». Inoltre, la valle del Taro era percorsa da venti da sudest, sciroccali: caldi e umidi. Panìco ha ricordato come spargere sale e graniglia per combattere il ghiaccio possa rappresentare a sua volta una fonte di pericolo, qualora non sia necessario. «E l'allerta meteo dell'Emilia-Romagna era verde». Infine, la questione cunetta, la cui pulizia era stata chiesta a un cantoniere il 3 dicembre. Pare non avesse il mezzo adatto: così avrebbe rimandato l'intervento al giorno dopo. Ma, a quel punto, sarebbe stato troppo tardi.
Amarezza a fine udienza è stata espressa da Marita Ponzini, che con il marito Franco ha assistito a tutto il processo. La madre di Simone ha promesso che si continuerà a battere perché la strada sulla quale ha perso la vita il figlio sia resa più sicura. «È troppo pericolosa, e non sto parlando solo di quel ponte. Si deve finalmente fare qualcosa per far sentire meno sola e abbandonata la montagna».
Roberto Longoni
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