IL RICORDO
Giuliano Molossi insieme a Giorgio Torelli
L’ho incontrato per l’ultima volta qualche anno fa, in occasione di una cena organizzata dai parmigiani di Milano, i tanti pramzan strajè che vivono e lavorano all’ombra della Madonnina. Ero andato a prenderlo sotto casa a Città Studi con la mia Smart e lui si era molto divertito ad attraversare la città a bordo di quello che gli sembrava un go-kart più che una macchina. Abbiamo molto chiacchierato e riso, era di buon umore, felice di andare a un ritrovo parmigiano. Una volta là era stato festeggiato da tutti e applaudito calorosamente quando, nel suo breve intervento, aveva parlato del suo amore per la città e la sua gente, un amore sconfinato che lo portava ad essere indulgente verso un certo nostro snobismo ducale. «Civis parmensis sum», così esordì lui che era il capo indiscusso della tribù degli strajè milanesi. «Vivo da sessant’anni a Milano e ogni mattina mi sveglio parmigiano con il compiacimento di esserlo. Ho passato la vita a girare il mondo ma non ho mai visto una comunità come la nostra, una simile raccolta di personaggi. Non ho mai conosciuto un parmigiano banale. Ognuno di noi quando vuol dire qualcosa in dialetto, che si tratti di amore o di dolore, ha una tavolozza di pennelli straordinaria. Quando mi dicono: vivi da sessant’anni a Milano e parli ancora di Parma così io rispondo che quando hanno ritrovato dei chicchi di grano nelle piramidi hanno fatto il pane e quei chicchi erano lì da secoli. Con questo voglio dire che è impossibile che in ciascuno di noi non ci sia quel deposito di parmigianità che è il nostro capitale versato».
Giorgio Torelli è stato il cantore della parmigianità come nessun altro. Diceva che i parmigiani si riconoscono guardandosi negli occhi, che non c’è bisogno di sentirli parlare, con quella “erre” inconfondibile. «Si è di Parma per sentire e per volere, per empito e per tornaconto del cuore».
Non ho mai conosciuto uno più parmigiano di lui, uno più innamorato di Parma di lui. È stato il nostro ambasciatore nel mondo che ha girato in lungo e in largo. Cacciatore senza tregua di buone notizie, di personaggi straordinari per umanità e generosità, di storie meravigliose che lui sapeva raccontare come nessun altro. Affabulatore magico, quando ti chiamava era sempre un fiume in piena. Fra le tante ricordo una telefonata: «Ciao Giuliano, ti disturbo?». «No, Giorgio, dimmi pure, sono in macchina, sono a Melegnano, sto andando a Parma». Inutile dire che ci salutammo un’ora dopo al casello di Parma, dopo 120 chilometri di racconti, di avventure, di progetti, di idee. Un giovanissimo novantenne pieno di entusiasmo per la vita.
Nel ’54 quando io venni al mondo («Ti ho visto nudo, sappilo», rideva) lui viveva i suoi ultimi giorni parmigiani prima di volare a Milano chiamato da Nino Nutrizio. Ma quante volte, da allora in poi, mio padre mi parlò di questo inseparabile amico, un fratello più che un amico («Goldoni te ne ricordi / eravamo tre fratelli / noi due e Giorgio Torelli / a passeggio per la città», incipit della poesia Allegria dal diario di Baldassarre Molossi, agosto 1945). Dallo stesso diario del diciassettenne Baldassarre: «La camera di Torelli non è una camera, è un museo, una biblioteca, una pinacoteca, un salotto, uno studio, tutto fuorché una camera. L’unica cosa che guasta è il letto».
Prima compagni di classe nella famosa III B del Romagnosi, poi dopo la Liberazione insieme nella prime prove di giornalismo su «Pagine libere», inseguendo sempre il sogno di fondare nuove testate. Poi Giorgio è partito e Baldassarre è rimasto ma la fratellanza è durata tutta la vita.
Nel ’79 ritrovai Giorgio al «Giornale» che cinque anni prima lo aveva visto fra i fondatori al fianco di Indro Montanelli. E Giorgio fu testimone alle nozze fra il Direttore e Colette Rosselli. Al «Giornale» inventò una rubrica, Cosa Nostra, che ebbe un successo straordinario fra i lettori. Spesso, verso mezzogiorno, ci ritrovavamo nel corridoio al terzo piano di via Gaetano Negri, davanti all’ufficio del vicedirettore Biazzi Vergani, in attesa di partecipare alla riunione. E quando non era in giro per il mondo con noi c’era il grande Egisto Corradi. I colleghi scherzavano: «Ecco la mafia parmigiana…». Undici anni fa, nel corso di una serata della Famija Pramzana, annunciai pubblicamente che gli avrei affidato una pagina settimanale sulla «Gazzetta». Ne fu molto felice e mi ringraziò. Ero certo che sarebbe stata molto apprezzata dai lettori ma non potevo immaginare che sarebbe durata così a lungo, fino a domenica scorsa. E invece per undici anni Eravamo una piccola città è stata la testimonianza più bella dello straordinario amore di Giorgio per la sua città e la sua gente.
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