Il racconto della domenica
Non gli era mai successo. Dopo pranzo si era seduto in poltrona con l’idea di ascoltare un telegiornale, e invece si era addormentato. In certi assolati pomeriggi della sua infanzia non avrebbe chiesto di meglio che dormire per un paio d’ore. Non c’era mai riuscito. Questa volta si svegliò a pomeriggio inoltrato, fluttuando nel torpore, e rimpianse di non aver continuato a dormire, placidamente, senza sogni.
Scese in strada galleggiando su una nuvola di incoscienza, con in bocca uno strano sapore di nostalgia. Montò in macchina senza aver deciso dove andare e procedette a caso lungo strade curve. Perse l’orientamento. La città gli appariva smisurata, come l’aveva vista da bambino, e tutto ciò che avrebbe dovuto ricordare sembrava scritto su una lavagna dove qualcuno aveva passato un colpo di straccio. I pensieri si attardavano lungo i profili di un albero, di un palazzo, di una pensilina alla fermata del tram. Poche ore prima, pensieri senza scopo gli sarebbero parsi un’assurdità. Ma in quella condizione aurorale, con la mente beata e i lineamenti distesi in una espressione estatica, la strada era il letto di un fiume in secca e le sponde erano pareti ripide, piene di buchi ai quali ogni tanto si affacciava una donna. La doppia fila di platani che fiancheggiava le rotaie del tram segnava le rive di un fosso. Il cielo era un’ovatta azzurra che chiudeva tutti gli interstizi. Al di là dell’ovatta c’era un coperchio, e intorno al coperchio un giro di scotch.
Arrivò in uno spiazzo dove le rotaie descrivevano un cerchio e ripartivano in senso opposto. Il tram sopraggiungeva in quel momento: percorse curva e si fermò. Le persone in attesa salirono a una a una. Diventarono teste mozze appoggiate ai finestrini, come le zucche intagliate che i bambini depongono davanti alle braci del camino. Il tram si avviò. Senza motivo, ma con la sensazione che quella fosse la cosa giusta da fare, lui ingranò la marcia e lo seguì.
Il viale era un lungo rettilineo ai lati del quale le case emergevano fra prati incolti e discariche abusive. Il tram viaggiò fino alla prima fermata e aprì le porte. Nessuno scese, nessuno salì. All’angolo di una strada deserta, una chiesa con un quadriportico bianco di calce sembrava una struttura senza scopo in mezzo a un paesaggio abbandonato. Nel silenzio, nel sole che faceva male agli occhi, la geometria del colonnato insinuò la suggestione di un segreto. I contorni netti della luce e dell’ombra sembravano contrapporsi in modo irriducibile. Era una cosa priva di senso.
Il tram si era rimesso in moto. Mentre lui fantasticava, aveva percorso quasi un chilometro e si era fermato a un semaforo, con le porte chiuse. Il viale cominciava ad animarsi. C’era gente sui marciapiedi. Nel piazzale di un supermercato i clienti scaricavano i carrelli.
Altre fermate, e il viale non era più tanto largo, le automobili sopraggiungevano chiedendo strada, i guidatori lanciavano occhiate.
Il tram sostò davanti a una scuola. Il portone era sbarrato, ma lui salì lunghe scale dagli alti gradini e percorse lunghi corridoi dagli alti soffitti. Finestre aperte. Luce formicolante. Buio. Luce. Sul lato opposto, porte chiuse e voci autoritarie. Andò avanti col cuore in gola, cercando una porta, una statua parlante e tante statue silenziose, ingabbiate dentro a strutture di legno, lunghe barche senza scalmi.
Non si rese conto di essere ripartito. Seguì il tram come un sughero risucchiato dalla corrente. Lo affiancò alla fermata successiva. Tra le persone che salivano colse il profilo di una donna. Gli mancò il fiato. Ora il segreto non aveva più niente a che fare con i giochi puerili e le sensazioni da adolescente. Quel viso era l’unica cosa che avesse senso.
Il traffico aumentava, le strade erano più strette. Lei era seduta sul lato destro: affiancando il tram, alzando lo sguardo, la sua immagine era tagliata dal riflesso dei vetri nell’altalena di scatti e frenate. Il tram avanzava con un moto irregolare e anche lui procedeva a singhiozzo, schivando pedoni trasognati e pony express inseguiti da fantomatici comanches. La donna seduta lassù era l’unica certezza. Lei. Solo lei. Lei e nessun’altra.
Eppure il tram si fermava davanti a un vicolo. E anche lì si passava continuamente dalla luce all’ombra, avanti e indietro, trasportando sacchi polverosi. I viaggi moltiplicavano i sacchi e si smetteva presto di far caso alla polvere. I sacchi erano disposti a strati, erano la base di una torre. Ogni strato aumentava il distacco dalla banalità quotidiana, cancellava paure e timidezze. I sacchi viaggiavano dal giorno alla notte, dal pozzo alla superficie, e il loro andirivieni trasmutava la materia vile nel più nobile dei metalli.
Era così semplice! Per conoscere il segreto bastava comperare la chiave. E impugnando la chiave avrebbe fermato il tram, sarebbe salito come un re barbaro conquistatore, l’avrebbe guardata negli occhi e tutto sarebbe cambiato.
Il tram arrivò davanti al tribunale. Scale, gradini, corridoi di marmo. All’improvviso, la sensazione di andare a un duello disarmati. La paura e la vergogna di essere senza risorse. Un meccanismo impersonale, un gioco dell’oca, lo costringeva a sostare in una casella.
Il tram era entrato in una zona pedonale. Non c’era tempo per parcheggiare, rincorrerlo, salire anche senza biglietto. Perché non ci aveva pensato prima? Ormai poteva solo aggirare la zona pedonale, attendere il tram e sperare che lei ci fosse ancora.
In una sala di marmo fredda come il banco di un macellaio, una voce impassibile recitò una litania di condanna. Il semaforo di fronte alle carceri passò sul rosso.
Corridoi, corridoi. Luci false e falso buio. Penombra. Il tempo era una stalattite di ghiaccio che pendeva da una grondaia dove il sole non batteva mai. Il tempo senza sole era uno sfondo dove tutto si confondeva. Non aveva più senso innalzare una torre di sacchi polverosi o cercare il segreto dell’alternarsi di luce e ombra.
In fondo alla strada il tram uscì dalla zona pedonale. Il semaforo passò sul verde e lui riprese l’inseguimento. Ma senza affiancarsi: si limitò ad accompagnare il tram, sostando alle fermate, scrutando il volto dei passeggeri che scendevano. Lei doveva essere a bordo, doveva esserci per forza, altrimenti niente avrebbe più avuto senso.
E ormai era finita anche la penombra. Il tram aveva acceso il suo unico occhio da gatto e filava nel buio lungo un altro viale di periferia. Le fermate erano sempre più distanti, i passeggeri sempre più scarsi.
Corse in fondo al viale, dove le rotaie tornavano a descrivere un cerchio e ripartivano verso la città. Fermò la macchina davanti al capolinea e attese. Il tram arrivò scivolando, come una nave alla banchina, con tutte le sue luci accese. Si arrestò e aprì le porte. Non scese nessuno.
Lui si avvicinò alle porte spalancate, ai finestrini illuminati. Il tram era vuoto. Le porte a soffietto si richiusero. Il tram ripartì, si allontanò nella notte, battello di luce in un mare senza onde. Lui si voltò, lasciò alle spalle gli ultimi bagliori dei lampioni. Entrò nel buio ininterrotto.
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