È, a tutti gli effetti, una relazione a due, fatta di cura, attenzione e pazienza reciproca. Per comunicare si scelgono parole adeguate e, affinché scatti quel meccanismo di empatia necessario per il funzionamento del rapporto, la fiducia nell’altro è una condizione imprescindibile. I loro ruoli, anche se ben distinti, sono spesso interscambiabili, perché ognuno può essere fragile, così come ognuno può essere eroico. Pier Anselmo Mori, pneumologo dell’Azienda ospedaliera di Parma è tra i medici citati e raccontati da Domenico Cacopardo, nelle pagine di «Cari dottori. Storia e riflessione» (edito da Diabasis), il volume in cui descrive la sua esperienza con la malattia e con la sanità. La delinea così l’affinità che si crea e, a volte, si conquista, tra chi si scopre malato e chi, invece, indossa il camice bianco.
L’autore del libro, tracciando il suo percorso personale di diagnosi e poi di cura, profila una carrellata di volti dei medici incontrati, insistendo sull’importanza della comunicazione e dell’umanità. E Mori conferma: «Tutti i dottori, come scrive Cacopardo nella sua definizione di empatia, cercano in qualche modo di entrare nella mente del paziente e di capire cosa voglia. Poi, sicuramente, anche tra noi esiste una componente caratteriale: c’è chi è più o meno espansivo, chi ha più o meno voglia di parlare, però con le strategie di comunicazione si può imparare a entrare in contatto con i malati (e viceversa)».
Lo specialista, che in quasi 40 anni di attività, ha appreso strategie e approcci diversi e ha visto tanti degenti, conferma che esistono modi più adatti di altri per rivelare diagnosi e percorsi, soprattutto in campo oncologico: «Nonostante sia sempre stato in sintonia con i miei malati, ho sempre cercato di capire. Ogni volta, però, è diverso e anche io ho imparato a essere più paziente».
E così, parole come «Cosa sa del suo caso?» , «Cosa pensa che le diremo?», «Che lavoro fa?», «Quali sono i suoi interessi?» sono, secondo Mori, la chiave per instaurare un rapporto che va costruito: «Prima di tutto, cerchiamo di capire quanta consapevolezza la persona ha della sua patologia. Poi comunichiamo la notizia quando conosciamo già, tramite pareri multi-specialistici, il percorso da affrontare. Ultimamente, sempre più malati hanno una percezione strana della loro malattia, anche perché mediata dai mezzi di comunicazione e da internet. C’è qualcuno che, per esempio, non ascolta i nostri consigli e li rifiuta, ma in quel caso è ancora più necessario entrare nella loro ottica, cercando di essere più tolleranti, senza ergere un muro, dando loro la possibilità di pensarci su e di comprendere». Nel volume di Cacopardo, oltre alla scoperta del suo tumore, è inserito anche un racconto parallelo legato alla diffusione del nuovo coronavirus, attraverso un’antologia di articoli che descrivono il (difficile) lavoro del personale sanitario dai primi mesi della pandemia.
«Noi, a Parma, abbiamo mantenuto il percorso oncologico e nel periodo Covid-19, i nostri pazienti, avendo fatto un percorso pulito, non hanno mai manifestato paure particolari», spiega Mori, che rammenta, con lucidità, le prime fasi del contagio e conferma la sicurezza con cui le persone più fragili siano state protette dal virus.
«Spesso, però, è accaduto che dei malati ricoverati a causa del nuovo coronavirus scoprissero la presenza di neoplasie, dopo la tac», aggiunge Mori. Da pneumologo, lo specialista ricorda di aver sentito parlare del nuovo coronavirus da un infettivologo, che lo aveva avvertito circa la pericolosità di questa malattia polmonare: «Personalmente ho adottato da subito le misure di protezione, forse anche prima degli altri (avevo la mascherina quando nessuno la utilizzava, per esempio). Nessuno, però, all’inizio, aveva compreso la portata di questo virus, né immaginava che ci avrebbe cambiato la vita, ma, da subito, ci siamo detti disponibili a lavorare dove era necessario». Il medico, che curando i polmoni ha potuto osservare da vicino gli esiti anche di questa malattia, non ha mostrato alcun timore nell’ammettere che il Covid-19 ha spaventato anche i medici, «persone come gli altri»: «Ho visto alcuni colleghi ammalarsi e morire: la mia paura non era tanto quella di non farcela, ma di non vedere più i miei cari e di entrare in un circuito senza sapere cosa sarebbe accaduto».
Mori, che definisce l’epidemia del 2020 un vero e proprio «disastro affettivo», non ama sentirsi chiamare eroe o angelo, attribuendo, invece, anche in questa circostanza, questa caratteristica ai malati: «Noi medici abbiamo fatto ciò che facciamo sempre: curare gli altri, con tutti i presidi utili a evitare il contagio, sentendoci esseri umani come gli altri, non certo dei paladini. Credo, invece, siano stati più eroi i pazienti, chiusi in casa due mesi, senza poter uscire e con prospettive sul futuro incerte, a fare i conti con problemi al lavoro, lutti improvvisi, familiari contagiati e perdite dolorose. Il Covid-19 ci ha tolto la possibilità di comunicare anche nel dolore, elemento a cui non eravamo abituati, e ha imposto ai più fragili la solitudine. I veri eroi sono loro».
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