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La parità di genere passa dalla scuola

La parità di genere passa dalla scuola

di Isotta Piazza*

26 Novembre 2020, 03:52

Dopo una settimana di notti insonni e coliche pomeridiane mi recai disperata al consultorio mamme dove incontrai un’ostetrica che amorevolmente mi spiegò: «resisti, tesoro, sono duri i primi tre mesi!». Quando tornai a casa, mia madre pragmaticamente mi disse: «abituati, sono duri i primi trent’anni».

Effettivamente, i primi tre mesi furono un inferno, soprattutto per una come me che era rimasta incinta durante la fase del precariato spinto: cioè niente maternità, nessuna tutela lavorativa e l’incombente preoccupazione di dovermela giocare in un mondo di uomini per i quali la nascita di un figlio implica la perdita di un giorno e mezzo di lavoro. Ovviamente, sto facendo una media! Conosco uomini che hanno preso il congedo parentale (veramente ne conosco uno solo) e uomini che si sono assentati solo mezza giornata (di questi ne conosco parecchi, marito incluso).

Comunque, devo dire che anche i primi tre anni non scherzarono…

L'ASILO FINALMENTE
Poi, finalmente, arrivò l’asilo. Certo, avevo già fatto l’esperienza del nido, ma quella per me aveva implicato il bambino a casa malato tre giorni su cinque, nei mesi temperati, e due settimane su tre in quelli invernali. Nel frattempo, era arrivata anche la seconda figlia, ma di questa scelta (che a questo punto sapevo benissimo essere) sconsiderata e lavorativamente kamikaze me ne assumo la totale responsabilità. È della scoperta che ti riserva il primo figlio che vorrei parlarvi! Perché ancora non tutte le donne che sognano e studiano per una brillante carriera sanno, e magari si illudono che sì, i primi tre anni saranno complicati, ma poi ci sarà tempo per recuperare. Ecco, sappiate una cosa: questo tempo non arriverà all’asilo. Solo per inserirlo dovete prendervi dieci giorni di permesso. Il primo giorno si fermerà solo 15 minuti, il secondo sosterà sulla porta per 30 e poi dovrete pregare tutti i santi in paradiso che non versi molte lacrime, se no si torna d’accapo ma stavolta con la tabellina degli 8 minuti. Sappiate che tutte le riunioni con i genitori (cioè con le mamme) saranno previste alle quattro del pomeriggio, che tutte le feste contrassegnate da un funghetto sul calendario dei puffi dovranno essere celebrate con la presenza dei genitori (cioè sempre delle mamme) e che è gradita la collaborazione delle famiglie (vedi sopra) per allestire gli spettacoli, per sfornare torte per la raccolta fondi e per annaffiare gli esperimenti botanici nei mesi in cui l’asilo è chiuso. Insomma, anche solo per la routine di base vi partirà un bel mazzo di giorni in cui tutti faranno carriera tranne voi.

E non pensiate che la scuola elementare migliori la situazione: ci sarà tutto quello che avete già sperimentato prima (riunioni alle cinque del pomeriggio, festicciole e impegni di ogni tipo) e in più ci saranno gli sport dei figli (e io non ho mai capito perché si debba rinunciare alla nostra ora di fit box per garantire ai figli quattro allenamenti settimanali, infatti non ho rinunciato), le feste di compleanno nei weekend, i compiti, le prime verifiche e poi le chat. 

DELIRIO CHAT
Parlo al plurale perché per ogni figlio che si inserisce in prima elementare partono in automatico almeno cinque o sei chat di gruppo che inviano quotidianamente tra i cinque e i venticinque messaggi per un totale che varia dai 35 ai 150. Io ho provato a silenziarle tutte per una settimana, ma così mi sono persa anche un sacco di informazioni importanti e ho arrancato per mesi. Da quel tragico errore, mi concedo pause di silenzio mai più lunghe di otto ore.

E VENNERO LE MEDIE
Ora, capirete come quando si profila all’orizzonte l’ingresso di tuo figlio in prima media, investi su questo cambiamento una tale speranza, un’ansia di riscatto e di legittima riappropriazione del tuo tempo lavorativo che poi è davvero dura credere all’incredibile. Già, perché la situazione peggiora. Tu pensi che i cinque anni delle elementari siano serviti a renderlo autonomo, a fornirgli le basi solide per affrontare il passaggio. Il problema è che più di un passaggio si tratta di un vero e proprio rito di iniziazione. La mole di lavoro è spaventosa. I termini di consegna, inderogabili. I patti organizzativi, stipulati a suon di note disciplinari. E poi c’è lo studio. Ma questo i professori delle medie lo sanno già, e te lo dicono subito, alla prima riunione: «i bambini non sanno studiare e quindi chiediamo l’aiuto dei genitori (cioè delle mamme) per le materie orali, ovvero per storia, geografia, epica, scienze, inglese, francese, tecnica, musica e arte». E va beh, mi sono detta, facciamo anche quest’ultimo sforzo, tanto cosa ci sarà da studiare in prima media? Per il lunedì ci sono sei pagine di storia di un libro scritto in sanscrito, più venti pagine di ripasso. Poi ci sono i venti vocaboli nuovi di inglese, più gli esercizi, tre pagine di storia dell’arte, poi c’è da finire il disegno, più il ripasso. Uh, scusate… dimenticavo la verifica di grammatica, gli esercizi e lo studio delle regole. Infine la paginetta per educazione fisica, perché con il Covid i ragazzi non fanno più ginnastica, allora c’è da studiare anche quella. Gli altri giorni… uguale.

CIAO CIAO CARRIERA
Dopo due mesi di scuola ho capito che farò carriera tra tre anni. E se qualcuno di voi sa già che non è vero neanche questo, lo prego di non dirmelo, perché la speranza è l’unica cosa che mi rimane.

Ah dimenticavo… almeno sapessi che ne vale la pena. Ebbene, da docente universitario che incontra quei ragazzi alla fine del loro percorso scolastico io vi posso assicurare che tutte quelle pagine da studiare e la mole di lavoro spropositata evidentemente non funzionano. I ragazzi non sanno scrivere cioè non sanno concepire né articolare un pensiero autonomo. I ragazzi non hanno spirito critico cioè non ragionano su quello che studiano, non lo interrogano né lo giudicano. Certo, ci sono delle brillanti eccezioni. Per fortuna. Ma la maggior parte degli studenti è sempre più in difficoltà: ogni nuova generazione è più fragile e incerta di quella che l’ha preceduta. Questo significa che quanto sto facendo per mio figlio non lo faccio come docente per il suo futuro, ma come madre per la sua sopravvivenza, il che rende il mio sacrificio lavorativo ancora più penoso, ingiusto e ingiustificato.

A questo punto, se avessi fatto la carriera che avrei voluto e se potessi scegliere come interlocutore del mio ragionamento un consulente del Miur o direttamente qualche politico titolato per la scuola, invocherei la necessità di una ennesima riforma che sia prima di tutto di buon senso, che faccia tesoro di quanto funziona, che corregga quanto è inutile, dannoso e irragionevole e che metta al centro la progressiva indipendenza dello studente che deve ricevere dalla scuola tutto quello che è necessario per scrivere, studiare e pensare in modo autonomo, critico e creativo. Senza l’aiuto di sua madre.

Io però ho perso un sacco di punti con l’allattamento, le riunioni, i compiti, lo studio e tutto l’extrascolastico e temo di non essere oggi in condizione di trattare con il Miur. Però, posso appellarmi alle tante, tantissime donne che lavorano nella scuola o che hanno i loro figli a scuola e che si saranno riconosciute almeno in una parte di quello che ho scritto. Ebbene: non dimentichiamo che siamo più della metà del mondo. Troviamo un accordo. Cambiamolo.

*Professoressa associata di Letteratura italiana contemporanea dell'Università di Parma

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